Articolo moolto critico di Startmag:
«L’economia tedesca è a pezzi e nessuno ha un piano B». È il titolo che campeggia in prima pagina sul Wall Street Journal di martedì. Si parla della parabola discendente della città bavarese di Ingolstadt, quartier generale dell’Audi, nelle cui casse oggi c’è un ammanco di entrate per tasse locali pari a circa 100 milioni di euro, che il gruppo Volkswagen era solito versare annualmente. Col risultato che il sindaco della città non sa come far quadrare i conti.
Profitti in calo del 91% nel terzo trimestre 2024, migliaia di posti tagliati e all’improvviso a Ingolstadt si parla di «effetto Detroit». Quella che una volta era la punta di diamante dell’industria tedesca, che aveva costruito la sua supremazia sulla crescente domanda dell’immenso mercato cinese, ora si ritrova, contemporaneamente, a subire la concorrenza dei produttori cinesi e il contraccolpo della domanda del Dragone che non cresce più ai ritmi del primo decennio. Se a questo ci aggiungiamo la crisi dei prezzi energetici (via abbandono delle centrali nucleari e cessazione delle forniture di gas russo), i dazi della prima presidenza Trump, l’ossessiva regolamentazione della Ue, il risultato finale è che il PIL tedesco nel 2025 rischia di chiudere in calo per il terzo anno consecutivo. Qualcosa che non accadeva dal 1951. Produrre in Germania costa dieci volte di più che produrre in Texas.
Il problema ancora più grave è che non ci sono idee per ripartire. Infatti sono venute meno le condizioni esterne che consentirono alla Germania, agli inizi del primo decennio, di portare la quota dell’export fino al 43% del PIL. Fino a raggiungere l’eccezionale risultato di esportare i due terzi delle auto prodotte nel Paese. Allora fu relativamente facile imporre la moderazione salariale, tagliare il welfare e affrontare con il vento in poppa dei mercati mondiali che domandavano prodotti tedeschi. Una sorta di svalutazione competitiva interna. Svalutarono il lavoro, anziché la moneta, non più sotto il loro controllo. Oggi, la Cina non ha più quei tassi di crescita a doppia cifra e ha imparato a costruire prodotti tecnologicamente comparabili, se non migliori, a quelli tedeschi. Inoltre il commercio mondiale è in frenata. In sostanza la Germania ha perso i clienti. Vengono così a galla tutte le magagne di un ventennio che si credeva “glorioso”, ma che è stato soltanto il risultato di una politica miope che ora sta presentando il conto. Quando si privilegia sistematicamente il risparmio agli investimenti, soprattutto in infrastrutture pubbliche chiave (trasporti, reti informatiche, ecc…) si erode alla base la competitività di un Paese. Si registra una mancanza di idee perché solo da pochi mesi il grande pubblico tedesco ha capito che non si tratta di una crisi passeggera, risolvibile con qualche aggiustamento tattico, ma di qualcosa di più profondo e strutturale e Olaf Scholz è diventato il Cancelliere più impopolare dal 1949, con elezioni tra poche settimane dall’esito molto incerto.
La reazione dei consumatori tedeschi è stata quella di aumentare ancor più il tasso di risparmio, contribuendo così ad un ulteriore stagnazione della domanda.
Se questa è la fotografia attuale. Non possiamo dimenticare che la crisi del settore automobilistico tedesco è in buona parte autoinflitta. Si tratta, puramente e semplicemente, di errori strategici (ben due in poco meno di 10 anni) con i quali si è trascinata dietro buona parte del resto dell’industria del continente.
Infatti bisogna andare indietro con la memoria alla primavera del 2014. Con l’esplosione del Dieselgate negli USA – in sintesi, le emissioni su strada di alcune auto Volkswagen erano nettamente superiori a quelle registrate durante i test sui banchi di prova – cominciò il declino dell’auto e del manifatturiero tedesco. Milioni di vetture coinvolte (5 milioni solo quelle del gruppo Volkswagen) richiami, repentini cambi di management, un vero e proprio terremoto che dopo pochi mesi arrivò in Europa e contribuì a peggiorare il quadro.
Da quella crisi, originò la svolta “green”. Una precisa e deliberata scelta strategica, quella di affrancarsi dalla trazione con combustibili fossili per passare a quella elettrica, nella convinzione che, ancora una volta avrebbe prevalso l’eccellenza tecnologica tedesca. Ma quella scelta è già oggetto di insegnamento nelle business school come esempio di una madornale sottovalutazione dell’assenza di fattori distintivi, critici per il successo: la disponibilità della filiera produttiva a monte (soprattutto quella di produzione delle batterie e delle relative materie prime) e l’avanzamento tecnologico. In entrambi i casi, i più grandi competitor cinesi e USA erano molto più avanti, anche perché disponevano di un mercato interno in cui era facile conseguire importanti economie di scala.
Fino alla crisi Covid la Germania era riuscita a tenere testa ai concorrenti, ma dal 2020 è iniziato un lento declino delle esportazioni di auto. Oggi la Cina esporta oltre 6 milioni di auto e la Germania circa 3,5 milioni. Il motore del manifatturiero tedesco si è piantato.
E qui arriva il Green Deal europeo. Che è l’infruttuoso tentativo della Germania – per reagire allo smacco del Dieselgate – di imporre una svolta tecnologica all’intera manifattura europea, nell’egoistico obiettivo di riconvertire con successo buona parte della sua base produttiva alle nuove esigenze di mercato, imposta dirigisticamente dalla Commissione. Alla quale del clima interessava giusto il minimo, perché l’obiettivo era salvare l’industria tedesca. Ma, per gli stessi motivi specificamente indicati per l’automotive, la costruzione di pannelli solari, batterie, turbine per pale eoliche, è diventata una interminabile sequenza di fallimenti. Troppo il divario da recuperare con gli altri competitor mondiali, soprattutto, anche in questo caso cinesi. È bene sempre ripetere che il Green Deal è la risposta – strategicamente fallimentare – al Dieselgate. Il Green Deal è (o meglio è stata) la ricerca (fallita) di un’opportunità di affari. Ci credevano, ma è andata male e ora correggere la rotta è ancora più costoso e doloroso.
L’aggravante è che tutto ciò è avvenuto anche a spese degli altri Stati membri. Lungo due direttrici: dirottando risorse del bilancio della Ue a favore di sussidi nazionali e imponendo ampie deroghe al divieto di aiuti di Stato, con l’effetto di distorcere pesantemente la concorrenza nel mercato unico.
Ma, come spesso accade, se qualcosa può andare male, lo farà. E così la seconda presidenza Trump con la minaccia di dazi, l’abbandono degli accordi di Parigi, lo stop alla corsa alle auto elettriche e il rinnovato stimolo alla produzione di fonti energetiche fossili, ha nuovamente scompaginato lo scenario strategico. Nelle case automobilistiche tedesche, all’improvviso, i business plan di qualche settimana fa sono diventati carta straccia.
Perché finora era stata propria l’amministrazione Biden, che aveva sostanzialmente sposato la filosofia del Green Deal e aveva fatto credere alla Germania e alla Ue di essere sulla strada giusta, sia pure da inseguitori e senza la baldanza dei primi anni ’20.
Dopo gli ordini esecutivi del 20 gennaio, Trump ha dichiarato che il “Re è nudo”, ha rilanciato la politica dei dazi all’importazione già attuata nel precedente mandato presidenziale, costringendo i tedeschi ad un radicale ripensamento degli investimenti eseguiti e programmati lungo tutta la filiera dell’automotive.
Capita anche ai più bravi di sbagliare strategia (infilarsi nel business dell’auto elettrica da inseguitori) ma sbagliare due volte (credere che gli Usa avrebbero continuato a credere nella favola “green”, spalleggiando la Ue, quando erano chiari i segnali della forte opposizione interna alle politiche di Joe Biden, prima ancora dell’avvento di Trump), è diabolico.
Ora la Germania (e la UE) è davanti a un bivio. Prendere atto che il Green – nelle forme “talebane” di questi ultimi anni – è morto e che non si può prosperare in eterno sulla domanda estera, oppure schiantare definitivamente l’automotive e il manifatturiero.
Nel 1945 fu necessario far entrare i carri sovietici del maresciallo Zukov a Berlino per far terminare la guerra. Speriamo che 80 anni dopo i tedeschi abbiano imparato la lezione e si fermino prima.
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