Appunto, insieme a Ram. Cedere Jeep significherebbe rendere il resto di FCA debolissima e soggeta a scalate. Great Wall non e´poi neanche questo colosso.
Imho lo spezzatino si sta avvicinando con le quasi certe cessioni di Magneti Marellie Comau, per il resto sarei ben piu´dubbioso.
Poi si vedrà, se le ombre cinesi smuoveranno oppure no gli americani e se dunque, alla fine, Mary Barra dovrà indossare un sorriso e farlo, quel colpo di telefono che a Sergio Marchionne ha sin qui sempre negato. Può essere che non accada niente. Può essere che accada tutto. Ma non sono buone solo per i falò di Ferragosto, le voci che una settimana fa hanno riportato Fiat Chrysler Automobiles sotto i riflettori delle Borse internazionali.
Tra Cina e Usa
È vero per esempio, nonostante le smentite di Pechino, che l’interesse della Cina c’è: e guarda caso i quattro potenziali indiziati — Geely, Dongfeng, Great Wall e lo stesso partner di Fca nel Paese, ovvero il gruppo Gac — hanno fatto seguire il classico «non abbiamo progetti» al meno perentorio «attualmente». È vero, ancora, che comunque nei piani di alleanza/vendita considerati da John Elkann l’Impero di Mezzo non è incluso, e non è questione di prezzo. Ci sono evidenti, probabilmente insormontabili barriere geopolitiche: Donald Trump ha tutti gli strumenti che vuole per impedire al capitalcomunismo di Xi Jinping di impossessarsi di Jeep, Ram & Co. e sbarcare, per questa strada, direttamente in territorio Usa. Già basterebbe. Dopodiché, è in ogni caso sufficiente sfogliare il portafoglio di Exor per capire dove stia il vero baricentro degli affari di casa Agnelli. Quel che c’è in cassaforte vale, al netto, sui 14 miliardi. Ed è un tesoro che sì, sedi legali o meno, viene molto più dal dollaro che non dall’euro: Partner Re e Fca da sole «fanno» più del 60%, con Cnh e Ferrari (che negli States hanno business quasi altrettanto importanti) si va oltre il 90%.
John Elkann John Elkann
È credibile che Elkann possa voler mettere a rischio tutto questo in cambio di un assegno, per quanto faraonico come quelli che i cinesi possono staccare? No. Indipendentemente da ogni altra valutazione. Il presidente di Fiat Chrysler e di Exor considera l’auto tutt’altro che intoccabile, tant’è che l’alleanza definita «ideale» (e oggetto di contatti, almeno passati) con General Motors o con Volkswagen sarebbe un modo di mettere in sicurezza Fca ma anche, insieme, una sorta cessione di sovranità: nell’uno e nell’altro caso, se mai si verificassero, difficilmente sarebbe Exor l’azionista di riferimento. Infatti non è questo, il nodo con la Cina. E non è neppure vero, per tutte le ragioni appena elencate, che le sirene da Pechino possano funzionare all’inverso, cioè spingere Washington al pressing perché Gm apra le porte della sua torre al Renaissance Center, cuore di Detroit, 50 chilometri appena da Auburn Hills. Pur se in fondo sarebbe, probabilmente, un affare win-win. La Jeep e tutto il resto ne uscirebbero blindati. Fca non avrebbe più il problema delle dimensioni, e neppure quello (cruciale) della successione a Marchionne. Gm tornerebbe incontestata leader mondiale, a qualche milione di auto di distanza da Toyota e Volkswagen e avendo riconquistato, per di più, una buona fetta del mercato europeo nel frattempo abbandonato. Qui con Opel perdeva, da anni, e quando si è stancata l’ha venduta a Psa. Fca le porterebbe in dote una quota più grande (7,3% contro 6,3%) e ormai decisamente redditizia.
È il punto centrale. I conti. Gli utili — meglio: la redditività — da un lato, la situazione finanziaria dall’altro sono quel che meglio spiega perché Fiat Chrysler sia oggi tornata (e appetibile, questa volta) al centro dei giochi possibili. Perché proprio adesso, anche. Manca meno di un anno e mezzo alla chiusura del piano che Marchionne aveva presentato, nel 2014, avvertendo che non sarebbe stato «per deboli di cuore» ma promettendo, in cambio, che avrebbe rivoltato pressoché totalmente il gruppo. A tre quarti del cammino, il trend dice che il «test coronarie» regge. Qualche stress lo dà ancora l’Alfa Romeo, però non si può dire che la rivoluzione premium non abbia (fin qui almeno) funzionato: il numero di auto prodotte sostanzialmente non cambia (tra il primo semestre 2016 e maggio-giugno 2017 è semmai sceso, del 2%), ma se il fatturato sale e gli utili netti vanno su del 125% (dai 799 milioni di un anno fa agli 1,8 miliardi attuali) significa che lo spostamento sull’alto di gamma è effettivo. Ha già portato i modelli premium dal 20% al 60% della produzione e, soprattutto, fa la propria parte nella crescita dei profitti.
Debito a zero
Stesso andamento (anche se gli analisti sono sempre un po’ delusi), per l’altro elemento forte della cura Marchionne 2014-2018: l’indebitamento netto industriale. La promessa dell’amministratore delegato era stata: «quasi» azzeramento. L’ha corretta in corso d’opera, togliendo il «quasi». E in effetti: i 7,6 miliardi del 2014 erano scesi a quota 4,5 il 31 dicembre 2016, da lì a fine giugno 2017 altra limatura a 4,2, da qui a fine anno il target confermato dice «inferiore a 2,5 miliardi».
Ambizioso? Sì. Come tutto il resto del piano, d’altra parte. Ma qui non è come sulla quantità di auto prodotte (abbandonato da un pezzo l’obiettivo dei 7 milioni). Qui, sulla situazione finanziaria, Marchionne ha ancora parecchie leve da muovere. Gli analisti puntano su uno scorporo di Alfa e Maserati. Gliel’hanno anche chiesto, nella conference call di luglio. La risposta è stata: «Impedimenti tecnici non ce ne sono, ma ne parleremo al prossimo Investor Day». Cioè quello annunciato (a sorpresa) per «il primo semestre dell’anno prossimo», e nel quale presenterà il nuovo piano al 2022 (oltre che il suo successore, evidentemente, sempre che il risiko delle alleanze non rinvii oltre il 2018 la sua uscita in direzione Maranello).
Poi però Marchionne ha anche aggiunto, più sibillino: «Dovremo depurare il titolo per creare maggior valore per gli azionisti e perché Fca diventi un costruttore adeguato. Va fatto prima di dodici mesi». Dunque, sostanzialmente prima (forse molto prima) dell’Investor Day. Quindi, «oltre» l’eventuale polo del lusso Alfa-Maserati. Dove ci sono sempre, da valorizzare, Comau e soprattutto Marelli. Per l’una e per l’altra si parla da tempo di possibile vendita. I gruppi interessati ci sono, le offerte che Torino considererebbe adeguate (per Marelli almeno quattro miliardi, si dice) non ancora. Nell’attesa l’alternativa, volendo, ci sarebbe. È quella già sperimentata con Ferrari. Si chiama spin-off. Per abbattere il debito funziona benissimo, per «creare maggior valore per gli azionisti» idem. Ferrari (e non solo) docet.
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